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Cardatore

Titolo del mestiere: Cardatore – "Cardalano"

Periodo storico di riferimento: XVIII-prima metà del XX secolo.

Fonti di riferimento:
Biblioteca comunale Emilio Magaldi, San Chirico Raparo:
Tommaso Pedìo, La Basilicata Borbonica.
Michelangelo Morano, Storia di una società rurale: la Basilicata nell'Ottocento.
Giacomo Racioppi, Storia dei popoli della Lucania e Basilicata.
Archivio comunale: Registri degli Atti di nascita

Persone coinvolte: Prospero Cirone, (vissuto tra la fine del XVIII e gli inizi del XX) incontrato negli Atti di nascita.

Descrizione del mestiere
Il popolo sanchirichese non conobbe altro genere di opifici che mulini mossi dalla forza del "giumento" o azionati da acqua, gualchiera per sodare i panni e frantoi per le olive. L'industria manifatturiera veniva svolta per la primaria necessità della popolazione stessa, una sorta di industria domestica volta alla tessitura della lana, canapa e ginestra (i cui steli erano apprezzati per la fibra tessile che vi si ricavava e dalla quale si ottenevano tele grossolane, per farne tovaglie, asciugamani, ma anche calze) di cui gli operai di campagna facevano uso, quindi, il commercio dei manufatti soprattutto di lana non andava oltre il ristretto mercato locale. Sul territorio era prevalente l'allevamento di pecore dell'antica razza Gentile di Puglia, in seguito migliorata dai continui incroci con arieti Merinos, importati nel XVIII secolo dalla Sassonia. La lana veniva distinta in prima e seconda qualità in relazione alle tosature di Maggio e Agosto. Le pecore venivano lavate lungo i corsi dei fiumi e una volta tagliato il tosone si piegava mettendo nell'interno la lana della testa, del ventre e della cosce, il tutto poi veniva conservato in luoghi asciutti o si vendeva subito ai commercianti che lo trasportavano nel Salernitano.

Dopo la tosatura, la massa di lana subiva un secondo lavaggio in liscivia (lissija) per eliminare il grasso, poi si risciacquava. Con piccole cesoie si provvedeva all'asportazione delle particelle estranee e dopo la battitura e l'oliatura, la lana si sottoponeva a cardatura. La cardatura fatta a San Chirico Raparo, e in pochi altri centri della provincia, era affidata a lavoranti maschili, i quali giravano anche in altri paesi per compiere tale operazione, mentre nell'ordinario si impiegavano le donne per 1-3 grana ogni libbra di lana cardata. Rispetto alle fibre vegetali, la lavorazione della lana denotava una maggiore cura tanto nel lavaggio quanto nella colorazione delle tele, generalmente sottoposte a follatura che nell'ambito della produzione domestica veniva praticata dalle donne per mezzo di grossi magli. La follatura era un'operazione con la quale si facevano restringere e rassodare i panni di lana sottoponendoli a pressione, a sfregamento e ad azioni chimiche in bagni alcalini o acidi.

Già per i mulini ad acqua ho precisato che quello appartenuto alla famiglia nobiliare dei Simonetti era munito di "varchera" (gualchiera) cioè il follone idrico tessile i cui magli battevano la stoffa trattata con acqua, sapone e argilla per conferirle la consistenza del feltro, quindi la falda di lana ottenuta senza il concorso della tessitura. La follatura dei pannilana costituiva nell'800 l'unico caso di applicazione di energia meccanica al settore tessile, tutto il resto avveniva manualmente.

Le gualchiere si servivano di ruote verticali, il loro asse sollevava alternativamente per mezzo di camme due mazzuoli di quercia che ricadevano sui tessuti disposti in un apposito vano. L'azione meccanica compattava le fibre infeltrendo il tessuto fino a renderne invisibile la trama, mentre l'azione sgrassante del detergente smacchiava il tessuto eliminando l'olio che impregnava la lana. Una gualchiera di adeguate dimensioni poteva sodare in un giorno oltre 20 canne di stoffa, per un introito giornaliero superiore a un ducato. Nella produzione ad uso familiare la follatura veniva eseguita in casa dalle donne a forza di piedi o per mezzo di magliuoli, bagnando e rivoltando ripetutamente i tessuti.

La fase di colorazione delle stoffe veniva eseguita in casa per i panni destinati al consumo domestico, mentre alle tintorie si inviavano quelli da immettere sul mercato. A seconda delle tinte e dei tessuti il costo variava dai 10 ai 20 grana a canna, con coloranti estratti da piante locali per lo più spontanee. Per il rosso si ricorreva alla robbia la cui corteccia delle radici veniva polverizzata e fissata con un mordente acido dato dal tartaro di potassio il quale si utilizzava anche per fissare il nero. L'operazione consisteva nella soluzione in acqua dei sali contenuti nel solfato di ferro col tannino presente nella corteccia dell'olmo o del melograno, e nei talli del rovo o delle noci di galla. Il giallo era ottenuto dalla guaderella per infusione in acqua bollente delle sue foglie essiccate, allo stesso modo si utilizzavano i fiori della ginestra. Per il blu si faceva ricorso sia all'indaco che al guado. Al miscuglio di guado, calce, crusca, robbia ed erba gialla si aggiungeva l'indaco, ottenendo così l'indicotina. Il tessuto veniva immerso nel composto, poi si esponeva all'aria, subendo un processo di ossidazione che faceva precipitare l'indicotina nelle fibre colorandole di azzurro.

Giudizio di sostenibilità
Gli ostacoli principali allo sviluppo industriale dei nostri paesi vengono forse, oltre che dalla scarsità di spirito di iniziativa e di tendenza associativa, anche dalla insufficienza del sistema delle comunicazioni stradali e ferroviarie e dall'insufficienza dell'organizzazione commerciale, nonché dei servizi pubblici e bancari. Ma tenendo in considerazione il privilegio di vivere l'era industriale in un Paese sviluppato, anche per noi non è difficile procurare beni utili al fabbisogno giornaliero, ciò significa che non ci ricopriamo di foglie di fico!

Quello che mi piace invece immaginare, pensando agli antichi mestieri manifatturieri, è l'organizzazione di un progetto didattico extradisciplinare, sottoforma di laboratorio ludico, volto al coinvolgimento dei bambini soprattutto in attività di ricostruzione dei processi lavorativi ma anche nell'acquisizione della cultura locale, ripercorrendo così gli strati della storia. Imparare, dunque, il "già vissuto" con i giochi della ricerca, prima, e della ricostruzione dei fatti, dei mestieri, degli oggetti, poi. Attraverso l'uso di materiali semplici; dal bisogno della collaborazione; dalla condivisione dello stesso fine, i bambini comprenderebbero lo spirito della collettività, dell'aiuto reciproco, smorzando i toni violenti che fomentano, andando avanti nel tempo, ispirati da acquisizioni televisive (le quali ogni giorno bombardano i nuclei familiari, sconvolgendo la loro apparente quiete mentale che il più delle volte subisce mutazioni irreversibili) riportandole nella quotidianità, non tralasciando ovviamente la propensione naturale umana alla distruzione dei propri simili.

Non è mia intenzione convogliare il discorso in aspetti tragici della società, che fortunatamente ancora nelle nostre comunità riusciamo a domare, ma è chiara a tutti la violenza dei cambiamenti dovuti anche alle nuove ed ulteriori invasioni barbariche.

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